L’orientamento sessuale è la caratteristica che indica il sesso delle persone che ci attraggono sessualmente.
Siamo omosessuali se siamo attratti sessualmente da persone del nostro stesso sesso, eterosessuali se siamo attratti sessualmente da persone dell’altro sesso, bisessuali se siamo attratti da persone di entrambi i sessi, cioè sia dai maschi sia dalle femmine.
Ancora oggi non vi sono modelli teorici in grado di spiegare in maniera esauriente le cause dell’orientamento sessuale.
Ipotizziamo che sia determinato in parte da fattori biologici, in parte da fattori ambientali; che si instauri nei primi anni dello sviluppo e tenda a rimanere stabile nel corso della vita.
L’orientamento sessuale non è, dunque, frutto di una scelta, ma una cosa che “capita”.
Più influenzati da caratteristiche psicologiche o culturali sono semmai i modi in cui l’individuo sceglie di vivere, definire e esprimere (o non vivere, non definire, non esprimere) il proprio orientamento sessuale.
È innegabile, tuttavia, che nella nostra società l’orientamento sessuale sia ancora un criterio di differenziazione tra gli individui che può limitare la libertà di vita di molte donne e molti uomini.
L’eterosessualità, infatti, funziona come una norma invisibile e discriminante che regola i rapporti all’interno della società (eteronormatività).
Queste discriminazioni, però, sono frutto di stereotipi e pregiudizi poiché non vi sono ragionevoli motivi (sociali, relazionali, medici, psicologici) per stigmatizzare o discriminare le persone non eterosessuali.
Fino alla metà del secolo scorso l’omosessualità era considerata una patologia, ma senza che vi fosse un fondamento scientifico: anche la medicina e la psichiatria subivano l’influenza dei pregiudizi più diffusi.
Grazie ai mutamenti socioculturali e alle ricerche scientifiche, si è invece compreso che omosessualità e bisessualità sono varianti normali della sessualità, al pari dell’eterosessualità.
Tra le prime, rudimentali ricerche ricordiamo quella pubblicata nel 1957 dalla psicologa Evelyn Hooker sul Journal of Projective Techniques.
Dopo aver somministrato alcuni test psicologici a gruppi di partecipanti etero e omosessuali, incaricò alcuni esperti di valutare in cieco i protocolli differenziandoli in base all’orientamento sessuale del partecipante.
Gli esperti non furono in grado di distinguere i due gruppi, e questo fatto portò Hooker ad affermare che non erano riscontrabili indicatori psicopatologici dell’omosessualità.
Successivamente al 1973, quando l’American Psychiatric Association (APA) eliminò la diagnosi di omosessualità dalla settima ristampa della seconda edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-II), le associazioni internazionali dei professionisti della salute iniziarono a pronunciarsi anche a favore dei diritti civili delle persone lesbiche, gay e bisessuali.
A poco a poco, infatti, sono stati riconosciuti i danni legati alle discriminazioni e alle violenze subite a causa dell’omofobia (il cosiddetto minority stress, derivante dall’appartenere a una minoranza stigmatizzata).
Il 17 maggio 1990 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) decide di eliminare la diagnosi di omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD) (e per questa ragione il 17 maggio è stato proclamato giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia).
Dall’elettroshock a interventi “psicoterapeutici” riparativi, non sono mancati nel corso della storia i tentativi di “modificare” l’orientamento sessuale.
Queste “terapie”, basate su pregiudizi, spesso di matrice ideologica-religiosa e privi di fondamenti clinico-scientifici, presuppongono che nelle persone omosessuali vi sia qualcosa che è andato storto nello sviluppo, qualcosa di “rotto” da riparare (da cui terapie “riparative”).
Se già Freud, nel 1920, affermava che «l’impresa di trasformare un omosessuale pienamente sviluppato in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta», la comunità scientifica è ormai concorde nel considerare questi interventi inefficaci e dannosi, oltre che eticamente scorretti (perché “curare” una “malattia” che non esiste?).
L’unico risultato a cui possono portare queste “terapie” è una sorta di “pseudo-eterosessualità” basata sulla repressione e la dissociazione di attrazioni, fantasie e desideri omosessuali.
Le più autorevoli istituzioni nazionali e internazionali hanno bandito questo tipo di interventi, fino a vietarne l’utilizzo sui minori (per esempio, negli Stati Uniti).
Al tempo stesso sono state pubblicate e diffuse linee guida per gli psicoterapeuti al fine di promuovere un ascolto rispettoso e libero dal pregiudizio, riconoscendo l’impatto dell’omofobia.
Gli studi condotti da Mark Hatzenbuehler, co-direttore del Center for the Study of Social Inequalities and Health della Columbia University, mostrano gli effetti negativi dell’omofobia sulla salute fisica e mentale delle persone gay e lesbiche.
Breve bibliografia consigliata
Hatzenbuehler M.L., Bellatorre A., Lee Y., Finch B.K., Muennig P., Fiscella K. (2014). Structural stigma and all-cause mortality in sexual minority populations. Social Science and Medicine, 103, pp. 33-41.
Lingiardi, V. (2012). Citizen gay. Affetti e diritti. Milano: il Saggiatore.
Lingiardi, V., & Nardelli, V. (2014). Linee guida per la consulenza psicologica con persone lesbiche, gay, bisessuali. Milano: Raffaello Cortina.
Rigliano, P., Ciliberti, J., & Ferrari, F. (2012). Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità. Milano: Raffello Cortina.
Rivers, I. (2015). Bullismo omofobico. Conoscerlo per combatterlo. Milano: il Saggiatore.
Hanno collaborato i Dottori Nicola Carone e Nicola Nardelli, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma.
fonte: portalenazionalelgbt.it
a cura di Vittorio Lingiardi, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza Università di Roma