C’è chi ritrova se stesso negli occhi di un altro essere umano, e chi lo fa, affrontando un viaggio in terre sconosciute. La mia verità la trovai nascosta nella rimessa di una vecchia casa abbandonata. In quella casa dove si era svolta la recita monotona e stonata della nostra vita familiare, avevo trovato pagine che raccontavano un altra storia, una storia non recitata ma sinceramente vissuta, di un amore lontano e struggente.
Quando mi ero ritrovata in mano una delle lettere di Agnese non avrei mai immaginato quali conseguenze avrebbe avuto sul mio presente, e quanto profondamente avrebbero cambiato la mia vita quei fatti ormai lontani. Silvana deve tornare in Toscana, dopo venti anni d’assenza, per seppellire suo padre. E rovistando tra le polverose cianfrusaglie di quel passato che si era lasciata alle spalle scopre delle lettere, vecchie lettere nascoste con cura. Chi scrive è Agnese l’amante di Elena… sua madre. Le due donne si erano conosciute da ragazze e si erano innamorate nonostante tutto. Nonostante la vergogna, nonostante la paura e l’ipocrisia di un mondo che stava per cambiare (erano gli anni sessanta) ma che ancora non era pronto ad accettare un amore “diverso” come il loro. Elena però non aveva avuto il coraggio di sfidarlo fino in fondo quel mondo, ad un certo punto si era illusa di poter condurre una vita “normale” e si era chiusa nella sua nicchia protetta costringendosi a recitare il ruolo di moglie e di madre. Per Silvana comincia quindi uno struggente viaggio a ritroso che le racconterà l’altra faccia dell’amore, di un amore sacrificato alla vergogna ma che resisterà al tempo e alla morte e darà a lei il coraggio di rimettersi in discussione e cambiare la sua vita.
INCIPIT
Quando la zia Adele mi aveva telefonato per dirmi di papà, avevo avuto un attimo di straniamento ed era stato per questo che non le avevo risposto con la partecipazione che si sarebbe legittimamente aspettata. In realtà io ero abituata da molti anni allo spazio vuoto che la parola padre definiva nella carta geografica dei miei affetti e la notizia che, lontano da qui, in una casa anonimadella periferia pisana, la salma di un vecchio reclamava la mia presenza e le mie lacrime mi poneva in uno stato d’animo indecifrabile che somigliava in parte alla reminiscenza confusa di un dolore, in parte al sentirmi vittima di un equivoco. Mio padre per me era morto venti anni prima, insieme a mia madre. Di fatto, pur non essendo morto fisicamente, dopo quella tragedia, era cambiato in una maniera così improvvisa e profonda da trasformarlo in una persona emotivamente irraggiungibile. Era come se quella perdita avesse esasperato, in misura patologica, certi aspetti del suo carattere, già così ostico anche al tempo di quella che era stata la nostra normale vita famigliare. E infatti, a qualunque età della mia vita fossi risalita attraverso i miei ricordi, il mio rapporto con lui avrebbe potuto essere descritto, invariabilmente, come un indefesso tirocinio psicologico nel quale con il suo atteggiamento scostante, la sua aria assente, le sue risposte brusche, sempre pronte a colpirmi a bruciapelo, mi aveva abituata a tenere le distanze, a frenare gli slanci, e a non esprimere mai nulla di eccessivamente personale. Ricordo ancora, tra le abitudini della nostra vita famigliare, le lunghe passeggiate silenziose per i sentieri delle nostre colline nelle quali lo avevo seguito da bambina, trotterellandogli alle calcagna per ore come un cagnolino nella speranza che prima o poi mi concedesse l’elemosina della sua attenzione. Una volta venuta a mancare mia madre, il nostro legame fragile, nato più dalla mia paziente ricerca del suo affetto che da un suo naturale istinto paterno, si era reciso con uno strappo violento e io mi ero ritrovata dall’oggi al domani a dover cercare un posto dove vivere, fuori da quella casa dove ormai entrambi ci aggiravamo come fantasmi, nel silenzio più assoluto e mettendo il massimo impegno nel non trovarci mai l’uno di fronte all’altra. Avevamo trascorso quasi un anno sopravvivendo in quel modo, poi quando non avevo più potuto accettare quell’estraneità e mi ero resa conto di non avere più alcuna risorsa per contrastarla, avevo raccolto i miei quattro stracci e, con l’ausilio di un piccolo lascito di mia madre, avevo iniziato una nuova vita in un posto il più possibile lontano da lì.
LA TRAMA
Il romanzo racconta la storia d’amore di Elena e Agnese a partire dal ’68 fino ai primi anni ’90, attraverso una ricostruzione a posteriori, fatta dalla figlia di Elena – Silvana – sulla base di lettere e ricordi a vent’anni dalla scomparsa della madre. Dalla narrazione frammentaria fornita dalle lettere di Agnese, si apprende che Elena aveva vissuto quell’amore come colpa e che, pur non avendo mai la forza di privarsene del tutto, lo aveva confinato entro parentesi brevi, rubate alla quotidianità matrimoniale. Dai ricordi di Silvana, la madre viene dipinta come figura affettuosa ma inafferrabile, assorbita da mille doveri, spesso assorta in un mondo interiore inattingibile. Dai flash-back di Silvana sulla vita familiare, emergono anche il clima domestico, con la sua straniante assenza di calore e la figura di un padre che rifugge ogni forma di affettività. Saranno la ricostruzione veritiera di quel passato e l’influenza della personalità di Agnese a spingere Silvana a prendere in mano la sua vita con nuova energia e uno sguardo più limpido sulle proprie istanze interiori e sulla necessità di vivere in maniera autentica.
I TEMI
Nello scrivere, io e la mia coautrice, ci siamo trovate ad affrontare alcuni temi che, anche se sollevati rispetto ad un contesto storico ormai passato, ci sembrano ancora attuali. Abbiamo trattato il conflitto tra mandato familiare e omosessualità; gli stati d’animo di chi ha interiorizzato tali norme così profondamente da non riuscire a metterle in dubbio e percepisce la propria omosessualità come colpa; la particolare discrepanza fra convinzioni razionali aperte e convinzioni profonde omofobe che si evidenzia quando il coming out riguarda un familiare; la questione della famiglia, come luogo di realizzazione delle persone e substrato affettivo di crescita, tra modello tradizionale e possibilità omogenitoriale. Nonostante i temi, ”L’anno che portavi i capelli corti” non vuole assolutamente essere un romanzo a tesi ma rimane semplicemente un’opera di narrativa.
I LETTORI CHE VORREMMO
La classificazione generale che Amazon ha assegnato al romanzo è “LGBT, i diversi d’amore”. Cosa che da una parte riflette il contenuto dell’opera ma che d’altra parte mi infastidisce per due ragioni:
– “diversi d’amore” sottintende che ci sia una regola per l’amore
– l’involontaria limitazione che si impone al pubblico che lo leggerà. Mi spiego meglio. Vorrei che i nostri lettori seguissero la voce narrante – quella di Silvana – nella scoperta dell’omosessualità della madre, che si immedesimassero con le sue reazioni e che approdassero con lei alla comprensione sincera del bisogno di ciascuno di noi di realizzarsi pienamente anche attraverso la componente dell’identità sessuale. Vorrei che lo leggessero i giovanissimi LGBT che hanno interiorizzato norme tradizionaliste e che non hanno l’assertività di seguire la propria autentica inclinazione di genere; vorrei che lo leggessero i loro familiari, meglio ancora se conservatori. Proprio quel pubblico che potrebbe arretrare di fronte a una storia d’amore dichiaratamente omosessuale.
Sarebbe un bellissimo traguardo, per la nostra opera, se un ragazzo o una ragazza, leggendolo, trovassero il supporto per riflettere serenamente sulla propria sessualità e il coraggio per compiere qualche passo in avanti verso il godimento pieno della propria vita.
Danae Lorne
DANAE LORNE – Nome d’arte di Maria Antonella Scarfone, nasce a Locri (RC) nel 1976. A diciannove anni, dopo la maturità classica, si trasferisce a Pisa, dove tutt’ora vive, e dove consegue la laurea in Scienze dei beni Culturali. Durante il corso di studi ha modo di conoscere e approfondire alcune tecniche informatiche riguardanti il fotoritocco e il disegno vettoriale di cui s’innamora. Dopo aver seguito dei corsi specifici di grafica pubblicitaria e lavorato come collaboratrice in alcuni studi di design di moda, decide di coniugare la sua innata passione per il disegno agli strumenti di grafica acquisiti e dà vita così ad un nuovo stile essenziale e pulito (firmato Allèn design) che ricorda i motivi fumettistici della Pop Art. Il computer diviene strumento d’espressione artistica e propone un linguaggio di massa che viene facilmente riconosciuto e apprezzato: il soggetto è l’uomo nella sua fragilità e bellezza. Ogni ritratto racchiude in sé una propria individualità che si ribella all’omologazione, alla virtualizzazione e alla superficialità di questo mondo. Nel 2010 il giornale La Riviera annuncia la sua prima mostra: “Due stili e un anima”, allestita nel Palazzo Barletta (1559) a Caraffa del Bianco, insieme ai lavori della madre Alba Dieni (1941-2011), nota pluripremiata pittrice e scultrice. Dopo la prematura scomparsa della madre a cui è molto legata, i ritratti grafici diventano anche parole. Nel 2013 esce il suo primo romanzo Il Canto delle Cicale, edito da EEE-Book primo di una trilogia che trova il suo seguito in Sottopelle (2014) e Cuore mancino (2015). I ritratti umani dei suoi personaggi ben caratterizzati e “vivi”, sono portavoce di una umanità “virtuale” che si illude e si isola in “non luoghi”, dove tuttavia l’anima riesce ancora a sopravvivere. Nel dicembre del 2016 esce L’Anno che portavi i capelli corti / Ed. EEE-Book, scritto insieme alla collega ed amica Lena Vinci.
Lena Vinci
LENA VINCI – E’ nata nel 1972 a Catania dove ha svolto i suoi studi – Maturità Classica e due terzi del corso di laurea in Chimica Pura – e le sue prime esperienze lavorative. Dal 2006 vive in Liguria svolgendo “mille mestieri” oltre a quello di eterno studente che sente proprio fin dalla nascita. Gli esseri umani nelle loro infinite declinazioni culturali e caratteriali sono il centro gravitazionale della sua continua ricerca di conoscenza.
http://www.facebook.com/LorneVinci
https://www.facebook.com/Lanno-che-portavi-i-capelli-corti-379212025750712